A cura di Angelo Meda, Responsabile Azionario di Banor

L’era della distrazione

I mercati abbassano la soglia di attenzione.


L’uomo è arrivato sulla luna oltre cinquant’anni fa, ma come genere umano abbiamo difficoltà con la nostra soglia di attenzione. Secondo alcune ricerche recenti, si sarebbe ridotta a una media di soli otto secondi, meno di quella di un pesce rosso. Una statistica allarmante, che molti attribuiscono all’abuso della tecnologia o, più precisamente, al flusso costante di stimoli provenienti da immagini, notifiche, messaggi, social network e altre fonti digitali.

Sul tema esistono due visioni interessanti. La prima è quella della giornalista Lisa Iotti, che nel suo libro “8 secondi. Viaggio nell’era della distrazione” prova a dare una risposta scandagliando il mondo dell’iperconnessione, in un percorso che passa attraverso un’indagine che tocca centri per curare le dipendenze psicologiche da smartphone e incontri organizzati da ex professionisti della Silicon Valley, diventati oggi promotori della disconnessione. La seconda visione è quella del neuroscienziato Bruce Morton, ricercatore del Brain & Mind Institute della University of Western Ontario, secondo cui il nostro cervello non sarebbe in regressione, ma starebbe semplicemente cercando di adattarsi al nuovo contesto iperstimolato in cui viviamo. Un contesto fatto di continue informazioni in arrivo da fonti sempre più numerose, che richiederebbe una metabolizzazione più rapida. Secondo Morton, dunque, la nostra mente sarebbe attualmente in fase di allenamento, per imparare a rispondere in modo sempre più efficace agli stimoli digitali.

Anche i mercati finanziari, oggi, sembrano distratti. Spesso si focalizzano su notizie superficiali ma di grande risonanza, trascurando invece trend di fondo più rilevanti. Si è parlato molto, ad esempio, del downgrade del debito americano da parte di Moody’s, ma in realtà altre due agenzie più autorevoli avevano già abbassato il rating: Standard & Poor’s nel 2011 e Fitch nel 2023. Dopo una breve pausa nei dibattiti su dazi e tariffe, pausa che aveva portato molte case d’investimento a ridurre la probabilità di una recessione per l’economia USA, l’attenzione è tornata sulla sostenibilità del debito pubblico americano.

L’amministrazione Trump sta approvando delle norme fiscali che impattano il deficit, incrementandolo nel breve per ridurlo nel lungo termine (dal 2029 dovrebbero subentrare i tagli alla spesa sociale, difficilmente attuabile a livello politico e che presumibilmente saranno dunque responsabilità della prossima amministrazione). Anche il tono del nuovo segretario al Tesoro, Bessent, è cambiato: da una pianificazione del deficit al 3% del PIL si è passati a dichiarazioni che colpevolizzano l’amministrazione precedente, senza stimare una modifica sostanziale nel breve del deficit, che ha raggiunto ormai il 7% del PIL americano.

Dobbiamo preoccuparci per un eventuale default del Paese economicamente più importante al mondo? I Credit Default Swap (CDS), ovvero il costo della protezione contro una ristrutturazione del debito federale americano, sono saliti da 30 a 50 punti base annui sulla scadenza a 5 anni, e da 40 a 60 sulla scadenza a 10 anni. Inoltre, il tasso swap (che rappresenta il tasso a cui due controparti finanziarie si scambiano un pagamento a tasso fisso con un pagamento a tasso variabile) rende meno di un titolo di Stato americano di pari scadenza per circa mezzo punto percentuale, come se il mercato obbligazionario ci stesse dicendo che oggi le banche sono percepite come più sicure del governo. Per fare un confronto: nel 2008, in piena crisi finanziaria, avveniva esattamente l’opposto, gli scambi tra banche erano considerati più rischiosi, con un differenziale superiore al punto percentuale rispetto al rendimento del titolo di Stato americano di pari scadenza.

Tuttavia, il debito americano rimane sicuro. Gli Stati Uniti rimangono una superpotenza economica e rispetto ai Paesi europei hanno la possibilità di svalutare il dollaro (cosa che sta avvenendo) per finanziare il deficit e rispetto al Giappone hanno parametri meno estremi (100% contro 250% in proporzione al PIL). Però, con una crescita economica tendenziale in area tra il 2,0% e il 2,5%, un’inflazione al 3% e un deficit al 7%, il mercato può chiedere un tasso trentennale più vicino al 6% rispetto all’attuale 5%. Non dobbiamo quindi sorprenderci se i tassi a lunga scadenza in America stanno salendo.

La vera domanda è: a che livello iniziano a dare fastidio? Al deficit americano sta già accadendo, visto che la spesa per interessi è destinata a raggiungere i massimi storici e a incrementarsi di quasi due punti percentuali rispetto al minimo toccato nel 2021.

Invece, rispetto i mercati azionari? In questo caso la relazione è più difficile da valutare. Abbiamo attraversato fasi con tassi decennali ben più alti degli attuali e i mercati hanno avuto comunque rendimenti positivi. Per esempio, tra il 1998 e il 2000, la bolla del Nasdaq si è creata con un decennale USA tra il 5% e il 6,5%, e nessuno in quegli anni dubitava dell’impatto sulla crescita economica o dei livelli di valutazione. Il vero tema è che ad oggi il debito americano sembra in una spirale negativa e solo azioni importanti possono deviarla.

Interventi significativi sono stati intrapresi in Europa in passato, per cui forse anche da qui viene il momento della riscossa dell’azionario europeo rispetto a quello statunitense. L’Europa è un continente abituato a dover “tirare la cinghia” e a ridurre le spese pubbliche, dove le parola austerity e frugalità sono state abbandonate solo recentemente per quanto riguarda le spese militari, ma rimangono concetti di fondo nel momento in cui si condividono i piani fiscali in sede europea.

Non è un caso allora che Trump abbia deciso di sfruttare l’era della distrazione per lanciare una proposta estrema: dazi al 50% per le importazioni dall’Europa. Un tentativo di spostare l’attenzione dai problemi più gravi? Un modo per avere otto secondi di attenzione su un altro argomento prima che arrivi il prossimo, sperando che nel frattempo si dimentichi il problema del debito e si torni a crescere in modo più sostenuto.


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